Il ritratto di Beatrice Cenci
Recentemente ho avuto il piacere di leggere il libro di Nicoletta Manetti: “Io, Beatrice Cenci – Una ragazza romana”.
Il racconto in prima persona della breve e tragica vita di Beatrice Cenci, una storia dettagliata, in quella società romana del XVI secolo, un racconto che ci descrive la condizione femminile, l’applicazione di una giustizia papalina di un reale reato, ma che fa di Beatrice l’eroina di quel tempo, e la sua esecuzione genera uno sconvolgimento che influisce sulla storia e sull’arte fino ad oggi.
Una lettura piacevole, scorrevole e fedele ai fatti storici, che consiglio.
Un capitolo in particolare mi ha colpito ed è “Il ritratto” che descrive l’esecuzione dell’opera arrivata a noi oggi; per circa quattro secoli si è ritenuto che l’autore fosse il bolognese Guido Reni, negli ultimi anni gli addetti ai lavori e critici d’arte l’hanno attribuita prima ad Elisabetta Sirani, attualmente come recita il cartellino dell’opera è attribuito a Ginevra Cantofoli discepola di Elisabetta Sirani.
Da ragazzo sfogliando la mia enciclopedia, fui colpito da questo ritratto, è quando qualche tempo fa ho avuto la possibilità di vederlo dal vivo, mi ha dato una forte emozione.

La discussione su chi fu l’autore del ritratto non toglie il pathos del racconto della Manetti, che voglio riportare:

“In cella le giornate erano angosciose, interminabili.
Una mattina entrò una guardia: «Un pittore, certo Reni
Guido, ha chiesto è ottenuto dalle autorità licenza di farvi un
ritratto. Attende adesso il vostro benestare. Chiede se può
venire domani quando la luce è favorevole».
Mi prese alla sprovvista. Un ritratto? Perché? Chi lo
aveva commissionato? Si voleva immortalare la giovane
che stava suscitando tanto scalpore e imbarazzi a Roma,
sia negli ambienti della giustizia che del clero? O si voleva
il ritratto di colei che sarebbe morta di sicuro di lì a pochi
giorni, come una reliquia, da usare a seconda dell’opinione
pubblica? Martire e quindi santa?
Comunque fosse, pensai, mi andava bene. Non avevo
più niente da perdere.
«Va bene, Ditegli che lo attendo domani alle dieci».
Il mattino dopo preparai un panno pulito, bianco, da
drappeggiarmi addosso, e un altro più piccolo per i capelli.
Non avevo né abiti eleganti né specchi per acconciarmi.
Pensai che avvolgermi in una stoffa chiara, come avevo visto in tanti quadri di santi, sarebbe stato un estremo messaggio della mia innocenza.
Puntuale al rintocco della campana delle dieci, entrò un giovane circa della mia età, coi baffi scuri, ben vestito, un mantelletto corto e una grossa bisaccia alla spalla. Mi fece un cenno di inchino:
«Vi ringrazio di avere acconsentito alla mia richiesta. Ve ne sono molto grato.»
Aveva un accento strano non era di Roma.
«Di dove siete?»
«Di Bologna. Ma Roma è la patria dell’arte sacra a cui tento di dedicarmi».
Arte sacra. E aveva chiesto di dipingere me.
Mi sentii infondere da uno stato di esaltazione mistica.
«sono certa della vostra bravura, e sono io a ringraziarvi».
Appoggiò la sacca sul tavolo, valutò la luce.
Posizionò una sedia un po’ storta, nel centro della stanza.
«Devo sistemarmi i capelli in qualche altro modo?
Potete immaginare, qui non è facile».
«Così andrà benissimo».
Mi accomodò il drappo che mi incorniciava il volto, e un ricciolo che ricadeva morbido sul collo. Sussultai. Mi parve un’eternità da quando mi
aveva sfiorato la mano di un uomo l’ultima volta.
Mi fece sedere, voltata leggermente verso di lui, nel
pieno del fascio di luce che scendeva diagonale e netto dalla feritoia.
Iniziò a tratteggiare col carboncino sulla tela, alzava
lo sguardo e lo riabbassava sul disegno. Poi prese dalla borsa un fascio di pennelli, una ciotola, le ampolle di pigmenti, uno straccio. La cella si riempì all’improvviso dell’odore acuto di olio di lino con cui mescolava i colori e dell’acquaragia, con cui puliva i pennelli. Mi affascinava guardarlo, così concentrato, serio.

Non aprii bocca e pensai che anche per lui fosse difficile trovare qualcosa da dire a una ragazza della sua età che
da lì a qualche ora doveva morire.
Ma mi sorrideva, ogni tanto. Brava, mi diceva.
Mentre lui lavorava, io mi immersi nello spicchio
azzurro dell’estate romana che vedevo tra i riquadri delle
sbarre. Non sapevo se sentirmi santa o disperata.“
“Io Beatrice Cenci – Una ragazza romana”, Nicoletta Manetti, pagg. 117-119
“Io quando vidi la immagine della Beatrice Cènci, che la pietosa tradizione racconta effigiata dai pennelli di Guido Reni, considerando l’arco della fronte purissimo, gli occhi soavi e la pacata tranquillità del sembiante divino, meco stesso pensai:
ora, come cotesta forma di angiolo avrebbe potuto contenere anima di demonio?
Se il Creatore manifesta i suoi concetti con la bellezza delle cose create, accompagnando tanto decoro di volto con tanta nequizia d’intelligenza non avrebb’egli mentito a se stesso?
Dio è forse uomo, per abbassarsi fino alla menzogna?”
Francesco Domenico Guerrazzi: “Beatrice Cenci storia del XVI secolo”, 1881
“Chi fu davvero Beatrice Cenci? Una vittima innocente o un assassina spietata? Una povera ragazza ribelle o una fredda criminale? Alcuni mi hanno immaginata eroina. Ma non ero affatto una santa. Fin troppo fiera e fremente come un falco in una gabbia stretta.
Ero solo una ragazza, una normale ragazza romana.”
“Io Beatrice Cenci – Una ragazza romana”, Nicoletta Manetti, pag. 137
Per approfondire:
“Io Beatrice Cenci – Una ragazza romana”, Nicoletta Manetti, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, 2024
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